Cianfrusaglie

Kiruna

Spinse con una spallata la portiera, facendo saltare via il blocco di ghiaccio che si era formato lungo la cerniera e suscitando le risate dei tre giapponesi. Rise anche lui di gusto, mimando di avere delle spalle forti e muscoli sulle braccia. Tra le tante lingue in cui sapeva dire qualcosa, il giapponese ancora non aveva trovato posto, ma contava di poter seguire un corso il prima possibile, quantomeno per le cose di base. Dopo la scuola superiore aveva avuto modo di viaggiare a lungo grazie ad una borsa di studio vinta in uno dei primi progetti europei per la mobilità studentesca universitaria, che gli aveva consentito di visitare un paio di capitali europee e di ottenere una wild card per il Canada, dove aveva affittato un appartamento sulla Lakeshore Road – o forse sarebbe stato meglio definirlo una stanza con bagno e dependance – non troppo distante dalla Toronto Mississauga University, dove studiava. Dalla finestra della sua stanza poteva vedere parte del lago Ontario e quando il vento non era troppo forte poteva distinguere gli odori che dalla superficie dell’acqua e dalle spiagge intorno arrivavano fin dentro la città. Mississauga e Toronto erano entrambe città piuttosto grandi e caotiche per i suoi standard – non tanto per la superficie, quanto per densità e numero di abitanti – ma la vita da studente non era troppo pesante e aveva anche avuto modo di fare conoscenza con alcuni altri colleghi di studio, stringendo con loro quella che poteva essere considerata amicizia, per quanto confinata dai limiti di tempo e spazio che uno studente che sta in un posto per un tempo limitato sa di avere. Ad ogni modo, era nel complesso piuttosto contento della sua permanenza in quella parte di mondo tanto diversa da quanto era stato abituato durante la sua giovane vita. Aveva compiuto ventuno anni da un paio di settimane. Respirò inspirando con forza l’aria fresca, socchiuse le ante della finestra, mise in ordine i fogli sparsi sulla scrivania, spense la lampada da studio sul lato ed andò in cucina a preparare qualcosa per cena. Due giorni prima aveva pranzato – quasi per caso – con una delle studentesse che seguivano il corso facoltativo di Scienze Politiche, che avrebbe dato ad entrambi qualche punto in più nel proprio percorso di studi, e l’aveva invitata ad uscire insieme, una di quelle sere. Lei aveva detto che avrebbe preferito prima rivederlo nelle pause tra una lezione e l’altra, magari nuovamente per pranzo, sempre che a lui non fosse dispiaciuto. In realtà la sua risposta era stata pesantissima da accettare in quel momento, ma aveva detto che certo, non sarebbe stato assolutamente un problema. Charlotte aveva i capelli rossi e le lentiggini sul naso e storpiava un po’ la R mentre parlava, cosa che – ancora più del suo nome – tradiva le origini francesi. Aveva la pelle chiarissima e il seno morbido. Quando per la prima volta fecero l’amore, in quella stanza con la finestra che dava sull’Ontario, l’inverno era appena cominciato. Non la si poteva definire una bellezza tale per cui ci si gira per strada, ma aveva dei lineamenti molto delicati e sebbene un po’ diffidente all’inizio, era in realtà molto loquace e decisamente intelligente. A lui, ad ogni modo, piacevano sopra ogni cosa quelle lentiggini rosse sul naso, che in alcuni giorni il sole faceva risaltare dando l’impressione che fossero dello stesso colore dei capelli. Aveva un anno meno di lui ed i suoi genitori avevano divorziato poco prima che lei si iscrivesse al corso di psicologia. Non le chiese mai niente dei suoi uomini precedenti, e lei fece la stessa cosa con lui riguardo alle donne con cui era stato. Non che avessero poi granché da raccontare, in effetti, ma questo loro tacito accordo era evidentemente qualcosa che andava bene ad entrambi. D’altronde, il passato non lo potresti comunque cambiare, anche se volessi, ed un particolare come quello non aveva nemmeno grande importanza. Anche a causa sua, i dieci mesi che aveva preventivato divennero molti di più. Alcuni mesi dopo la laurea trovò lavoro presso un istituto di formazione privato, con un discreto stipendio e molto tempo libero. Stettero insieme alcuni anni, finché Charlotte per delle coincidenze lavorative conobbe un broker americano che si era trasferito a Toronto da poco. Hans era rimasto in Canada per lei, e qualche giorno dopo aver incassato il colpo si licenziò, mise le sue cose in una serie di casse e le spedì a casa dei suoi genitori, affidò ad una compagnia il compito di vendere la sua proprietà e prese il primo volo per Auckland. Poi Singapore, Bangkok, Pechino e una infinita lista di posti in Asia, la Russia e la Turchia. Viaggiò prevalentemente in treno, fermandosi uno o due giorni soltanto in ogni città e camminando molto. Cercava di parlare il più possibile con le persone che incontrava, anche se in alcuni casi l’ostacolo linguistico era troppo grande per poter essere superato. Ad ogni modo, fu in grado di cavarsela piuttosto bene e non ebbe particolari problemi durante il suo peregrinare. Raggiunse le casse che aveva rimandato a Kiruna dopo undici mesi di viaggi, con la casa in Canada ancora invenduta e pochi soldi rimasti sul conto, e soprattutto con la testa ancora piena dei pensieri che aveva sperato di lasciare dall’altra parte dell’Oceano. Non l’aveva più sentita da quando si erano visti quell’ultima mattina in cui lei era andata via da casa. Qualche anno dopo da quel giorno seppe che si era sposata e che viveva a Chicago, ma non aveva voluto sapere ulteriori cose su di lei e sulla vita che aveva ora. Se fosse felice o meno, se sognasse qualcosa di diverso, se lo avesse pensato ogni tanto. Ogni cosa aveva poco senso ormai. D’altro canto, anche lui aveva nuovamente trovato la serenità che aveva desiderato a lungo. Rientrato in Svezia aveva cambiato completamente lavoro ed era diventato una guida turistica. Ogni tanto gli veniva da ridere, a ripensare a tutte le volte che chino sui libri malediceva una ad una le righe da studiare. La sua vita era ormai scandita dagli appuntamenti con le persone che volevano andare a vedere ciò che restava della prima miniera, di chi voleva spostarsi nella foresta la notte per andare a caccia dell’Aurora Boreale o di chi cercava di capire qualcosa di più sulla chiesa rossa costruita secondo il disegno delle tende Sami. Il suo lavoro gli piaceva – molto più del precedente – ed aveva modo di stare all’aria aperta e condividere ciò che sapeva sulla sua terra. Tuttavia, non aveva avuto più relazioni stabili e qualche volta pensava ancora a Charlotte. Una mattina di fine ottobre suo marito venne licenziato, tornò a casa, prese dall’armadio uno dei fucili che collezionava e l’aspettò seduto in cucina. Le sparò appena varcata la soglia di casa, poi poggiò il mento sopra la canna del fucile e fu il suo turno. Lasciò un biglietto sul tavolino pieno di farneticazioni sui perché. Hans venne a saperlo da un’amica comune – in realtà era lei ad averla come amica, ma era diventata anche sua negli anni – ma non ebbe il coraggio di partire per andare al funerale. Quel giorno camminò sopra la neve appena caduta nei percorsi sulla montagna della vecchia miniera, cercando di ricacciare ognuno dei pensieri che dal passato provavano a farsi spazio nella testa. Alcuni posti sembrano fatti per essere esplorati in solitudine o per dare un po’ di pace quando i pensieri diventano troppo fitti per poter essere gestiti dal divano di casa. Dal bianco accecante della neve che copriva ogni cosa nel bosco, d’improvviso, irruppe sulla strada una femmina di alce. Si fermarono entrambi, guardandosi reciprocamente col timore di fare il movimento sbagliato. L’alce scattò via lasciandolo solo sulla strada, col respiro che creava una nuvola davanti alla sua bocca. Da tempo non cercava più di dare giustificazione alle cose, lasciandosi scorrere accanto gli avvenimenti, ma quell’incontro improvviso gli sembrò non fosse avvenuto per caso. Si inginocchiò sulla neve e pianse a lungo. C’era stato un tempo in cui aveva amato quella donna così profondamente da pensare di poter trascorrere la propria vita al suo fianco ed ora era morta, per mano dell’uomo che aveva sposato e per il quale lo aveva lasciato. Quando finalmente riuscì a soffocare i singhiozzi e si sollevò dalla neve il sole era già basso sull’orizzonte e la temperatura era scesa di un paio di gradi. Quella notte non riuscì a prendere sonno in maniera adeguata, e nel breve tempo in cui ebbe modo di riposare sognò la spiaggia di sassi neri dell’isola greca in cui avevano trascorso alcuni giorni insieme, ma mentre cercava di tenderle la mano lei spariva tra le onde leggere di un mare calmissimo, senza che lui potesse fare niente per salvarla.
I tre giapponesi continuavano a emettere dei gridolini, estasiati dallo spettacolo che danzava sopra le loro teste. La notte era limpida e fredda, e l’Aurora Boreale era al suo apice. In realtà, non era una delle aurore più belle che si potessero vedere, ma ovviamente non glielo disse. Avevano scattato molte fotografie ed erano rimasti contentissimi. Lo ringraziarono quasi fino alla nausea. Dopo un paio d’ore, quando la tempesta di luce iniziò a scemare, rientrarono verso la città. Si versò un caffè caldo e controllò ancora la piccola borsa nera in cui aveva messo l’occorrente per un paio di giorni di viaggio. Le previsioni per Stoccolma parlavano di neve, ma di una temperatura decisamente più gradevole dei meno venti di quei giorni a Kiruna. Per un soffio riuscì a prendere l’espresso che dall’aeroporto di Arlanda lo avrebbe portato alla capitale svedese. Aveva poche ore di sonno alle spalle, ma aveva potuto dormire un po’ durante il volo ed ora, cullato dal dondolare del vagone, sentiva le palpebre chiudersi. Non oppose resistenza e riuscì a riposare fino all’arrivo. Scese alla stazione centrale ed uscì per raggiungere la biglietteria automatica della metropolitana, comprò un biglietto da settantacinque minuti e si avviò verso la scala mobile. Davanti a lui, una donna con i capelli rossi e una giacca beige teneva con la mano sinistra la tracolla della borsa. Aveva dei guanti di pelle nera e sembrava quasi fosse un manichino di un negozio di abiti, immobile com’era. La scala mobile la trasportava, ma sembrava non le interessasse per nulla dove. Era lì, su uno dei tanti gradini di metallo rigato, che si faceva portare al piano inferiore della stazione, per prendere un treno che l’avrebbe portata a prendere qualche altra scala mobile che l’avrebbe portata al piano superiore di un’altra stazione, e lì avrebbe ricominciato. Ne conosceva molte di persone così e forse anche lui aveva rischiato di diventare, un tempo, una di quelle persone. Arrivata alla fine della scala, la donna si fermò ad ascoltare per qualche secondo i suoni che arrivavano dall’amplificatore del musicista da metropolitana. Era un ragazzo sui trent’anni, grassoccio e con la barba rossa. Suonava Blowin’ in the wind di Dylan. Cantava bene, ma il brusio della T-Bana non consentiva di sentire al meglio le parole e gli accordi. Lei frugò nella borsa e prese una banconota da venti corone. Chinandosi leggermente la poggiò sulla custodia della chitarra e fece un sorriso al musicista. Lui ringraziò con un inchino. Forse non era una delle tante persone che si lasciano trasportare dalle scale mobili – pensò. Si sedette ad aspettare il treno incrociando le gambe. Aveva dei jeans blu e delle sneakers sportive nere con una banda bianca. Hans continuò a guardarla cercando di indovinarne l’età ed il nome, incurante di poter essere scoperto. Ventinove o trenta, pensò, immaginando il colore dei suoi occhi da dietro gli occhiali da sole – chissà perché li avesse, poi. La seguí nel vagone della linea blu fino a Kungsträdgården, cercando di non dare nell’occhio. Lei si tolse la giacca e si sedette su una delle panchine di legno, prese dalla borsa un ebook reader e cominciò a leggere. La temperatura era salita sopra lo zero e l’insolito piacevole tepore di quel pomeriggio appena iniziato si adagiava nell’aria come fa un’onda sulla riva. Dai capelli mossi si potevano vedere di tanto in tanto brillare degli orecchini ad anello. Sotto il pullover spuntava il colletto di una camicia a quadri e sul braccio destro un orologio con il cinturino di metallo. Qualche anno di meno – pensò – o qualche anno fa. Ma la vita reale non è fatta di “se avessi” e di “avrei dovuto”. Stette fermo un minuto ancora ad osservarla leggere, poi, d’improvviso, Johanna si girò verso di lui e gli sorrise.

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