Cianfrusaglie

See you.

Mi è capitato alcune volte di sognare di correre in certi sentieri che percorrevo durante la mia permanenza in Norvegia. Ås, il posto dove si trova il campus universitario in cui lavoravo, è un paesino di quindicimila abitanti della contea di Akershus, distribuiti in modo decisamente sparso attorno al piccolo centro cittadino. Oltre l’agglomerato urbano si estendono a perdita d’occhio case di campagna con annesse stalle, una ogni cinque, seicento metri. Di alcune, ogni volta che ci passavo di fronte, ho desiderato esserne il proprietario, per quanto erano belle. Oslo dista circa 30 km, e il treno impiega dieci minuti per arrivarci. Il tempo in cui io riuscivo a percorrere di corsa poco più di duemila metri. Quando il giorno del mio arrivo feci il giro di presentazione, mentre visitavamo la parte con l’azienda agricola che dava verso il lago Årungen, chiesi a Tormod, il mio tutor e supervisore norvegese, se fosse possibile e soprattutto se fosse sicuro correre sulla pista ciclabile intorno al campus. Ricordo distintamente la sua espressione stupita per la mia seconda domanda. “Certo che puoi correre qui, c’è ovunque una pista ciclabile che puoi percorrere. L’unico pericolo che corri qui è di cadere per il ghiaccio. Ah sì, se vai intorno al lago attento agli orsi e ai lupi, ma se ne vedono sempre meno, purtroppo o per fortuna!” E rise divertito. Aveva ovviamente ragione, sia sul fatto che le piste ciclabili fossero ovunque (ovunque davvero, spesso ho corso da Ås a Drøbak, il paese vicino – paese ufficiale di Babbo Natale – senza mai dover attraversare la strada), sia sul fatto che non ci fosse davvero alcun pericolo se non quello di cadere per il ghiaccio (cosa che sperimenterò durante il lungo inverno norvegese). Per quel che riguarda gli orsi e i lupi, purtroppo non ne ho mai visto, sebbene fosse un mio grande desiderio. Quella sera, forte dell’adrenalina che andava a manetta in circolo, o forse per la temperatura già di 15 gradi più fredda di quella che avevo lasciato in Sardegna il giorno prima sebbene “l’autunno” fosse iniziato da pochi giorni, girai per la prima volta intorno al lago. E abbassai il mio tempo personale sui 10 km di quasi 15 secondi per km, praticamente senza rendermene conto. Il fatto che fossi solo a cena, e che la “cena” fosse un sandwich pronto, un’arancia e della cioccolata comprate da REMA1000, che diventerà il mio supermercato preferito, poco aveva importanza. Ero riuscito a videochiamare casa, a vedere il mio nuovo posto di lavoro e a fare la mia corsa quotidiana. Dei 2500 chilometri di distanza poco mi importava, così come dei lunghi mesi di “solitudine” che mi aspettavano. Andai a dormire col sorriso sulle labbra. Ancora non sapevo che sarebbe stato così per tutti i 180 giorni che passai in quella casa. La vita lavorativa alla NMBU – Norwegian University of Life Sciences – è quanto di meglio si possa immaginare: organizzati, efficienti, gentilissimi. Non c’è mai stato nessun problema per cui non ci fosse qualcuno in grado di risolverlo. E nessuno ha mai cercato di evitare un incarico. Potrei parlare per ore delle differenze esistenti nel modo di vedere il lavoro e di come, al contrario di quanto si pensa comunemente in Italia, i norvegesi siano in realtà persone con un cuore immenso, una incredibile simpatia ed una umanità fuori dal comune. Potrei raccontare di come, per un problema burocratico, sia stato un immigrato clandestino per qualche settimana. Potrei raccontare di quanto sia stato supportato ed aiutato da tutti per risolvere agevolmente il problema, dovuto ad un errore di comunicazione dell’Ateneo dove lavoro in Italia (c’era bisogno di scriverlo?) e potrei anche dire come all’Ambasciata d’Italia ad Oslo le cose si siano risolte in quaranta minuti, mentre per telefono dall’ufficio con cui avevo comunicato in Italia mi avevano pronosticato mesi di attesa. Invece parlerò soltanto dei posti incredibili che ho visto durante le mie corse, e di come correre verso i tramonti (o le albe) di Ås abbia potuto contribuire a rendere la mia permanenza in Norvegia qualcosa da ricordare sempre con un sorriso. Parlerò in particolare di una delle mie ultime corse, a una decina di giorni dalla partenza per tornare a casa.

E’ un sabato mattina, il sole ancora non è sorto e io sono pronto per andare a fare la mia corsa giornaliera, un po’ prima del solito rispetto all’orario in cui vado nel fine settimana perchè voglio andare ad Oslo per fare un po’ di acquisti per il ritorno. Le classiche cose da regalare, calamite per il frigo per mia madre che mi ha fatto esplicita richiesta, matite, bandierine ecc. Alla fine della giornata avrò lasciato mezzo stipendio nel negozio di souvenir, con estrema gioia del proprietario. Sono pronto per correre, dicevo. Sistemo i guanti, lo scaldacollo e le catene alle scarpe ed esco di casa. Per tutta la notte è nevicato e ci sono una decina di centimetri di neve bianchissima e soffice da tracciare. Stranamente, ci sono pochissime impronte. I norvegesi nel fine settimana ci danno dentro con le feste (e l’alcool!) e rientrano spesso a casa direttamente all’alba del giorno dopo, per cui di solito la strada è già tracciata, almeno fino al punto in cui entra nel bosco. E’ quella la mia meta di oggi. Dal Pentagon (il complesso dove abito) il bosco dista in linea d’aria nemmeno 100 metri, ma per arrivare al sentiero tracciato e soprattutto non saltare la recinzione del campus devo fare quasi un km tra asfalto e stradina di ghiaia. All’ingresso del bosco un cartello (in norvegese ed inglese) informa che i tratti in cui la recinzione è segnata da fili arancione e giallo è elettrificata per gli animali selvatici. Significa che in quei tratti bisogna prestare particolare attenzione, e per questo motivo nel bosco corro sempre senza auricolari, ogni rumore può essere importante. Bene, ci siamo. Siamo io, il mio respiro, il rumore dei passi sulla neve ed il bianco vuoto di questo sentiero in un bosco norvegese. E’ un percorso che conosco bene, sono venuto qui già molte volte, so dove sia più rischioso fare un passo lungo, dove si può scivolare facilmente e dove posso tentare una corsa a perdifiato. Una delle prime volte, complice lo strato di ghiaccio che si forma quando dopo una nevicata si pesta il sentiero spezzettando ma non compattando la neve, sono quasi caduto. Uno scivolone olimpico, da cui miracolosamente sono uscito illeso e sono rimasto in piedi, dando un colpo di reni che nemmeno Sotomayor avrebbe potuto fare di meglio. Correre qui è quanto di meglio si possa chiedere se ci si vuole rilassare e si vuole staccare la spina dal resto del mondo. Perchè una cosa di cui ti rendi conto, quando entri in questo bosco, è che il resto del mondo, là fuori, è qualcosa di incredibilmente lontano. Forse non è nemmeno mai esistito. Passo dopo passo, questo bosco è l’unica cosa che conosci, e non vorresti mai uscirne. Ho appena iniziato a correre e sto pensando a quanto successo qualche notte fa, quando, dopo aver ormai perduto le speranze, ho assistito allo spettacolo dell’Aurora Boreale, l’esperienza naturalistica più trascendentale a cui abbia avuto la fortuna di assistere. Sdraiato sull’erba della collina dove sorge la chiesa protestante, per qualche ora ero stato investito dalla luce verde, il “messaggio di Odino”. Il percorso è una strada di terra battuta che quando non è coperta dalla neve è dura come l’asfalto, e si infiltra nel bosco per circa sette km, e nel tratto finale scende tra gli alberi e si ferma di fronte ad un laghetto che a sua volta segna il confine della radura grande come un paio di campi di calcio in cui le felci e qualche altra pianta bassa di cui non conosco il nome (sono così diverse dalla macchia mediterranea a cui sono abituato) prendono il posto dei faggi e delle querce secolari. Alla destra, a pochi metri dal lago, c’è una casetta di legno con una sola porta sul davanti ed un paio di finestre. E’ la “casa dei pompieri”, nel caso fosse necessario pescare l’acqua dal lago, ma non ci abita nessuno in inverno, visto che il lago ghiaccia e sarebbe impossibile sfruttarlo. In realtà, per quel che ricorda Tormod, non c’è mai stato un incendio nei boschi intorno ad Ås. Corro da dieci minuti, il sole sta per sorgere dietro la foresta e si inizia a vedere meglio. Il cielo da viola sta diventando rosa, e sulle poche nuvole all’orizzonte compare qualche raggio. Adoro le albe norvegesi, sono calme e rilassanti, e il sole non è mai duro, visto che sta molto basso all’orizzonte ed è quasi possibile guardarlo direttamente. Mi piace corrergli incontro, mi dà una carica incredibile. Sono quasi le sette del mattino, tra un’ora e quaranta dovrò prendere il treno, ho deciso che per oggi posso non fermarmi per fare le solite foto, ho un po’ di fretta e se riesco a fare tutte le commissioni per tempo mi piacerebbe visitare l’orto botanico prima di rientrare stasera. Quindi continuo a correre sul sentiero, sono quasi arrivato alla discesa che porta verso la radura. Tra poco ci sarà la curva in cui bisogna prestare attenzione, quella in cui (non so perchè) si formano gli strati di ghiaccio che si staccano e che fanno cadere. Se la neve copre tutto per bene, potrò poggiare il peso sul bordo e sfuttarla a mo’ di parabolica, altrimenti dovrò rallentare molto, fino quasi a fermarmi, per cui è bene che deceleri un po’. C’è la neve, per fortuna. Supero la curva ghiacciata, la casa in mezzo agli alberi da cui sale sempre il fumo dal camino (anche ora, ci sarà già qualcuno in piedi?) e inizio a percorrere il chilometro e mezzo circa che mi separa dal laghetto e dalla radura. C’è una piccola discesa e poi una breve salita, poi un’altra discesa, una curva leggera a sinistra, salita e nuovamente discesa. Mentalmente li ho già percorsi, è il tratto che mi piace di più, il percorso è strettissimo e si corre a stretto contatto con gli alberi, sembra di essere all’interno di un tunnel. Un tunnel decisamente fresco. Le temperature dell’inverno norvegese sono davvero proibitive, per uno che viene dalla Sardegna. Per intenderci, nel mio paese è nevicato due volte da che io sono vivo, nel 1986 e nel 2012, e la neve è durata qualcosa tipo tre ore. Qui nevica praticamente ogni giorno dal 16 ottobre, e da metà novembre la temperatura non è mai salita sopra i -5. Ogni giorno annoto la temperatura all’alba e a mezzogiorno, e controllo quelle che ci sono a casa in Sardegna. A volte le differenze sono di anche 35 gradi. Ma torniamo alla corsa. Sono sull’ultimo tratto di sentiero, sto ascoltando il mio respiro e i passi smorzati dalla neve. Intorno c’è solo il bianco del terreno ed il marroncino dei tronchi degli alberi. Il sole è sorto e il cielo è diventato celeste. Le poche nuvole all’orizzonte riflettono un colore bianco candido, come se stessero avvisando di essere cariche di neve pronta a cadere e cancellare le mie tracce. Sono alla curva a sinistra, la faccio correndo al massimo perchè alla fine inizia la salita, non troppo impegnativa ma nemmeno una passeggiata, arrivo in cima e prendo il tratto di sentiero in discesa. Endomondo mi dice che ho superato il settimo chilometro, mancano poco più di cento metri alla fine del sentiero. Arrivo di fronte al lago, una nebbia fitta come un muro galleggia sulla radura, io sto respirando pesantissimo e il rumore dei passi sul terreno basta per farmi sentire da lontano. Loro mi vedono subito, ovviamente, mentre io impiego qualche secondo (forse anche cinque o sei) per capire cosa siano quelle ombre. Come in un sogno, le ombre si fanno più chiare man mano che le fisso. Sono tre alci adulte e due vitelli. Avevo già visto un alce maschio qualche settimana prima, ma era scappato appena aveva notato me ed Ole, il mio “istruttore” di sci. Mi guardo immediatamente intorno, se ci fosse un maschio sarei in pericolo, sono animali molto forti e poco propensi a lasciarsi “prendere” il territorio. Le tre femmine e i vitelli sono ferme davanti a me, e mi guardano. Io guardo loro. Vorrei sfilare il telefono dalla custodia sul braccio e cercare di scattare una foto, ma sono sicuro che se distogliessi per un momento lo sguardo scapperebbero. Stiamo immobili per qualche interminabile e brevissimo secondo. Una delle femmine fa uno scatto e corre verso la foresta, attraversando in pochi secondi la radura. Le altre due femmine e i due vitelli le vanno dietro, e in un attimo spariscono dalla mia vista. Mi riprendo un minuto, continuo a cercare con lo sguardo questi animali meravigliosi, ma sono ormai ben nascosti e protetti dalla foresta. Riparto verso casa, verso il treno e verso le compere programmate. Termino la corsa pensando che sarebbe stato davvero bello potergli fare una foto. Ma forse è meglio così, di certe cose è bene non riuscire a catturare immagini, così si è obbligati a ricordarle bene. Faccio una doccia, mi vesto ed esco. La stazione dista quasi due km. Da quando sono in Norvegia misuro le distanze per tempo di percorrenza. Da casa alla stazione: quindici minuti senza neve, venti con la neve fresca, intermedi con la neve battuta. Mi giro verso il lato del bosco, ancora il sole non ha superato del tutto gli alberi e la foschia sta salendo. Mi sembra di vederli ancora, mentre mi fissano terrorizzati. Vorrei dirgli che non sono un pericolo e che in quel momento sono l’uomo più felice del mondo, ma ora sono sulla strada per la stazione. Mi sento pronunciare, in inglese, “see you“, “ci vediamo“.

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